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sabato 24 gennaio 2009

IL GIORNO DELLA MEMORIA COME ARMA

Si avvicina il Giorno della Memoria e crescono i dubbi sulla tenuta della ricorrenza. Sul suo senso e l’utilità civile che riveste, a prescindere dalle encomiabili intenzioni di chi, una decina d’anni fa, costruì - a livello culturale ma anche politico - questa scadenza del calendario nazionale. Il Giorno della Memoria incontra innanzitutto il rischio che ogni forma di ritualizzazione comporta: la perdita di pregnanza. Quando qualcosa si ripete, la monotonia è un effetto tanto collaterale quanto inesorabile. E giunge puntuale la noia, l’inconscia alzata di spalle. Intorno al Giorno della Memoria si crea non di rado un paradosso quasi spietato: la costante ricerca del «nuovo», da parte di enti, editori, scuole. Che è un’assurdità: perché la ricorrenza celebra per definizione sempre la stessa cosa; perché la brutalità di quel passato sta anche nel fatto che non ha nulla di nuovo da raccontare. E poi la forza del ricordo sta proprio nel già detto, tramandato, ripetuto. Di pari passo sorge la questione dell’«invadenza» del Giorno della Memoria nella scuola. A che serve? La scadenza è diventata un impegno curriculare di grandi proporzioni: docenti e studenti si sentono in dovere di mobilitarsi. Di sapere e capire. Il terreno è minato. Molto più delle guerre puniche e della rivoluzione francese: perché la memoria non è storia. Non chiede un approccio interpretativo, quanto emotivo. A scuola, invece, il Giorno della Memoria si carica di aspettative troppo alte: non didattiche ma etiche. Il metodo più efficace per (presumere di) arrivare a questi obiettivi si rivela la ricerca dell’effetto. E così, il ricordo finisce per diventare qualcosa di astratto. Tanto è vero che il Giorno della Memoria isola l’esperienza storica ebraica, invece di contestualizzarla. La sigilla in una bolla trasparente ma impenetrabile. Questo è innanzitutto un impulso naturale: di fronte al male si arretra, per difesa. L’orrore dello sterminio non può indurre vicinanza, anzi respinge. Di fronte alla Shoah, l’istinto inconscio si ribella, dice: no. Ora è diverso. Io sono diverso. A me non potrà mai accadere. Come ci si fa a immedesimare in una vittima, un torturato, un corpo dentro un forno crematorio? È contro natura. Poi c’è la questione didattica. Gli ebrei arrivano sui banchi in due occasioni: agli albori, con babilonesi, assiri e fenici, preludio al passato «importante», greci e latini. Millenni dopo tornano con la Shoah. A farsi sterminare. Tutto ciò contribuisce a isolare la loro storia a renderla strana, aliena. Questa specie di disconoscimento si riflette fuori dalla scuola. Non a caso in questi giorni il conflitto a Gaza e in Israele ha preso una piega diversa. Non dove c’è la guerra. Qui in Europa. L’imminente Giorno della Memoria è diventato un «soggetto» della guerra. Il bambino di Gaza e la donna di Sderot non se ne fanno nulla di un’immedesimazione storica, di un «ardito» accostamento al passato. Loro hanno da sopravvivere. Qui invece s’imbrattano muri di scritte antisemite (Torino), s’infangano cimiteri ebraici (Pisa), si disdicono celebrazioni del Giorno della Memoria (Catalogna), si grida: viva Hamas, ebrei nelle camere a gas (Olanda). La Shoah diventa codice interpretativo della guerra a Gaza. Non si tratta solo di opinioni azzardate, d’incompetenza allo sbaraglio. È anche un effetto del Giorno della Memoria: più s’avvicina, più diventa comodo strumento per denigrare l’oggi. Per isolare ancora una volta l’esperienza ebraica, che sia dentro la Shoah o nell’attualità. Liquidarla con categorie prefabbricate. E poi c’è qualcosa di più profondo: sta nell’inconscio di quell’Europa in cui la Shoah si è consumata ed è rimasta lì come un peso insopportabile. Che sarebbe bello poter finalmente scaricare altrove.

ELENA LOEWNTHAL
(Opinionista de "La Stampa")