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venerdì 27 giugno 2008

COMINCIO DALLA DEDICA

Walter Veltroni - Aprirò il libro dalla dedica. Non guarderò la copertina, non ancora. Ci ritorno dopo un po’: è rilegata in brossura cucita a filo refe, così da resistere di più all’usura. La sovraccoperta è bianca, il nome dell’autore è scritto in nero, mentre per il titolo si è scelto il colore rosso e forse non a caso: alla frontiera del libro e delle parole, come qualcuno ha scritto, c’è sempre una ferita. Sotto il nome e il titolo c’è la fotografia dell’autore. Cerco quel dettaglio che Roland Barthes definisce punctum, «l’elemento casuale che mi colpisce, mi ferisce», la chiave di lettura dell’immagine stampata. In questa foto di uomo canuto, di gentiluomo elegante, quasi un ritratto d’altri tempi (Rinascimento o Risorgimento?) il punctum per me è il fondo nero, forse non è un semplice espediente fotografico che gioca con le tonalità dominanti della copertina che s’accostano e s’incrociano - il bianco, il rosso, il nero. Quel fondo è un sipario: il volto dell’uomo è in primo piano e dietro ha un sipario nero. Si aprirà? Il sipario è dunque un invito, l’invito ad aprire il libro ed entrare nelle pagine. Lo faccio. Si comincia con una nuova ferita: il pianto disperato di bimbo per una casa che lascerà per sempre. Ricordi, considerazioni, pensieri: dalla fanciullezza («l’infanzia è una stagione fatata. La sola di tutta una vita che non finisce mai e t’accompagna fino all’ultimo respiro»), all’adolescenza («senti di poter essere tutto e ancora non sei nulla e proprio questa è la ragione della tua onnipotenza mentale»), il compagno di classe Calvino, il fascismo, la politica, le letture e le discussioni, l’aspra consapevolezza di un tratto distintivo dell’essere umano («Ma ora dobbiamo toglierci le bende dagli occhi ... Dopo millenni e millenni la riduzione della persona a cosa, la divisione tra padrone e servo, il mancato riconoscimento dell’altro, costituiscono ancora un tratto dominante della specie»), il lavoro e la politica, la fede religiosa e i fondamenti della morale, la senilità e l’innocenza riconquistata. Qualcuno lo ha definito un libro di riflessione filosofica, altri un testo a metà fra l’autobiografia e il saggio. E se fosse, invece, il racconto di un viaggio, non diversamente dai racconti e dagli immaginari di viaggio del ‘700 o di qualche altra epoca? Un resoconto preciso, altamente sincero, denso di ricordi e di scoperte, come ogni viaggio che si rispetti. Un viaggio sereno e impetuoso, ironico e passionale, in compagnia di Montaigne e Cartesio, di Pascal e di Nietzsche. Non è un racconto di episodi, di fatti, di accadimenti, è piuttosto la ricerca di ciò che lega quegli accadimenti e la nostra vita, degli imperativi che fondano le nostre azioni; è, in ultimo, il viaggio alla ricerca del senso del vivere. Lo scrittore in queste pagine dimostra per la vita «l’interesse di un decifratore di sciarade»: è una frase del portoghese Fernando Pessoa, una delle figure che meglio incarnano la complessità dell’inquieto Novecento e che, come il nostro autore in questo libro, amava parlare per frammenti. A questo punto conviene chiedersi chi sia lo scrittore, questo viaggiatore e decifratore di sciarade. Dirò che è un uomo che ha lavorato sulla parola e con le parole facendo quello che egli stesso definisce un “mestiere crudele”: il giornalista. Appartiene alla migliore tradizione borghese, laica e liberale e illuminata, quella che ha contribuito a ricostruire l’Italia del secondo dopoguerra. È un giornalista “sui-generis”, ha fondato giornali importanti, è stato maestro di tanti altri giornalisti italiani ed europei, ha sferzato la classe politica, denunciandone i limiti e le meschinità, scuotendo con forza la coscienza civile del Paese, ma non si è mai ritagliato per sé il ruolo d’agitatore o di capopopolo. Non ha nel sangue la demagogia della piazza, ma la dignità di chi ha fatto della responsabilità la guida del proprio agire. A pensarci bene è un libro che assomiglia alla fotografia di copertina: «in fondo - scrive ancora Barthes - la fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa». «Vita pensata», infatti, è definito questo libro in quarta di copertina, poiché è interamente un colloquio limpido coi propri ricordi e con il proprio sapere che più volte l’autore interroga, quasi socraticamente, per metterlo alla prova, per verificare, per non chiudersi in convinzioni dogmatiche («...è mia ragionata convinzione che la verità assoluta non esista e quella soggettiva e relativa dipenda dal punto di vista con cui guardi te stesso e il mondo»). Il nostro autore-viaggiatore non è come taluni marinai che s’aggrappano alla fede solo di fronte alle tempeste. Si cerca Dio per paura della morte, scrive, e «più si ha paura della morte più è intensa la vitalità e la volontà di potenza», ma forse è vero anche il contrario: più si scopre la vita, più si ama la vita, più essa stessa diventa così prodigiosa da renderci incongrua l’idea della morte. Racconta che si liberò presto dalla «necessità, sempre incombente, di trovare un senso ultimo», perché «non ci sono alternative alla vita e dunque il suo senso altro non è che viverla». A me pare che la ragione, il significato di tutto il libro sia racchiuso in queste parole: non c’è alternativa alla vita. È un libro, questo, che, nonostante la profonda nostalgia e le malinconie che emergono spesso, ha una forte “vocazione al futuro”, un po’ come quei libri di viaggi, appunto, dove il narratore-esploratore posa la penna solo perché è arrivato il momento di imbarcarsi di nuovo, di partire ancora. Un nuovo viaggio e nuovi sogni e nuovi ricordi. Ecco perché vale la pena prendere in mano e leggere «L’uomo che non credeva in Dio» di Eugenio Scalfari.