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lunedì 2 marzo 2009

UN VESTITO NUOVO PER L'ECONOMIA

La crisi finanziaria dello scorso autunno si è trasferita sul piano dell'economia reale: era un fenomeno largamente atteso. Sulle prime pagine dei giornali i fallimenti delle banche e il panico delle Borse hanno lasciato il posto alle stime sulla recessione e all'elenco, costantemente aggiornato, dei milioni di posti di lavoro persi in tutto il mondo, con la conseguente diffusione di impoverimento e precarietà. Allo stesso tempo si moltiplicano i piani di intervento pubblico a sostegno dell'economia e dei settori più in crisi, e i vertici internazionali straordinari: dal G20 di Washington dello scorso novembre, a quello europeo di fine febbraio, annunciato mentre scriviamo; purtroppo non è sempre chiaro se producano risultati concreti, al di là di affermazioni di principio e raccomandazioni generali. L'impressione è che lo smarrimento non riguardi soltanto la gente comune - i milioni di disoccupati o di risparmiatori che vedono andare in fumo le fatiche di una vita -, ma gli stessi responsabili del mondo al più alto livello. È un'impressione da prendere sul serio, che segnala che ci troviamo di fronte a una crisi strutturale del sistema economico in cui viviamo. In una situazione di tale genere, i rimedi tecnici fondati sulla competenza degli esperti sono di importanza fondamentale per mitigare gli effetti della crisi, ma non sono sufficienti. Come toppe cucite su un vestito già logoro, servono nell'immediato per non rimanere esposti alle intemperie, ma non riescono a nascondere l'urgenza di un vestito nuovo. Fuor di metafora, oltre che di piani di emergenza, abbiamo bisogno di interrogarci di nuovo e a fondo sul senso umano delle istituzioni e delle pratiche dell'economia e della finanza. Si tratta di una questione principalmente non tecnica, per affrontare la quale serve tempo e il ricorso a una molteplicità di saperi, compreso quello che è tradizionalmente chiamato sapienza. Nel presente editoriale tratteggeremo alcune riflessioni in questa direzione; in particolare: 1) ci metteremo in ascolto di alcune parole recenti del Magistero della Chiesa; 2) mostreremo, anche alla luce dello stesso Magistero, come la crisi strutturale in corso sia legata a un capitalismo fondato sulla speculazione; 3) termineremo con l'esame di alcuni promettenti, anche se fragili, segnali di discontinuità nel modo di intendere l'economia, provenienti dai primi provvedimenti della nuova Amministrazione statunitense.

1. Il Magistero sulla crisi

Dal 29 novembre al 2 dicembre 2008 si è svolta a Doha (Qatar) una Conferenza internazionale sul finanziamento dello sviluppo (cfr l'articolo di Sergio Marelli e Alberta Guerra alle pp. 212-221 di questo fascicolo). In vista di questo appuntamento, la Santa Sede ha predisposto una documento (PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Nota della Santa Sede su finanza e sviluppo alla vigilia della Conferenza promossa dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a Doha, in L'Osservatore Romano, 23 novembre 2008), che contiene alcuni spunti preziosi per le nostre riflessioni. La situazione di crisi - viene fatto notare - invita a porsi domande che, in momenti più calmi, quando tutto sembra andare bene, sarebbero trascurate se non irrise: «Come mai si è arrivati a questa disastrosa situazione, dopo un decennio in cui si sono moltiplicati i discorsi sull'etica degli affari e della finanza e in cui si è diffusa l'adozione di codici etici? Come mai non è stato dato sufficiente peso al verificarsi di episodi che avrebbero dovuto far riflettere?» (n. 3). Se si tenta con serietà di rispondere a questi interrogativi, non si può fare a meno di rimarcare che «la dimensione etica dell'economia e della finanza non è un qualcosa di accessorio, ma di essenziale e deve essere costantemente tenuta in considerazione e incidere realmente se si intende perseguire dinamiche economiche e finanziarie corrette, lungimiranti e feconde di progresso» (ivi). Con chiarezza si afferma quindi che la radice profonda della crisi non è tecnica, ma etica, aggiungendo che l'oblio dei valori conduce inesorabilmente a comportamenti distorti: «In fondo, la crisi finanziaria è l'esito di una prassi quotidiana che aveva il suo caposaldo nell'assoluta "priorità del capitale" rispetto al lavoro, incluso il lavoro, alienato, degli stessi operatori finanziari (ore di lavoro lunghissime e stressanti, orizzonte temporale di riferimento per le decisioni cortissimo). È anche l'esito di una prassi distorta per cui si presta più volentieri a chi è "troppo grande per fallire" e non a chi si assume il rischio di creare reali occasioni di sviluppo» (n. 3c). Anche Benedetto XVI ha affrontato l'attuale situazione di crisi nel Messaggio per la giornata della pace 2009, dal significativo titolo Combattere la povertà, costruire la pace. Tra gli ambiti relativi alla lotta alla povertà, il Pontefice annovera la crisi alimentare causata dal brusco rialzo dei prezzi dei prodotti di base nel corso dell'ultimo anno; tuttavia «tale crisi è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze» (n. 7). Le cause della crisi alimentare risiedono quindi nelle strutture economiche e nei comportamenti umani e in particolare quelli animati da intenti che mettono in secondo piano o che dimenticano il bene comune, «e questo contribuisce ad allargare la forbice delle disuguaglianze, provocando reazioni che rischiano di diventare violente. I dati sull'andamento della povertà relativa negli ultimi decenni indicano tutti un aumento del divario tra ricchi e poveri» (ivi). Analogo è il modo in cui il Papa legge la crisi finanziaria: «La funzione oggettivamente più importante della finanza, quella cioè di sostenere nel lungo termine la possibilità di investimenti e quindi di sviluppo, si dimostra oggi quanto mai fragile: essa subisce i contraccolpi negativi di un sistema di scambi finanziari - a livello nazionale e globale - basati su una logica di brevissimo termine, che persegue l'incremento del valore delle attività finanziarie e si concentra nella gestione tecnica delle diverse forme di rischio» (n. 10). Anche l'attuale crisi mostra, nei fatti, come «l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche meramente autoreferenziali» (ivi), e questo porta a gravi conseguenze: «l'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria» (ivi). Tanto nel caso della crisi alimentare come in quello della crisi finanziaria, la causa profonda di fenomeni che mettono a repentaglio le prospettive di vita dignitosa e di benessere del mondo intero sono i comportamenti e le logiche speculative.

2. La crisi del capitalismo speculativo

Solo la storia potrà dirlo, ma forse il 2008 sarà ricordato come il 1989, l'anno in cui il socialismo reale si afflosciò su se stesso sotto il peso dell'incapacità di garantire realmente quei valori di libertà e giustizia che pure proclamava. Oggi, in un modo che presenta indubbiamente delle analogie, è il capitalismo speculativo a crollare, risucchiato dal fallimento delle sue istituzioni più rappresentative, le banche d'affari, manifestando l'incapacità di mantenere la promessa di prosperità sempre crescente che gli anni della globalizzazione avevano fatto luccicare agli occhi del mondo (o almeno di una parte). Il limite fondamentale del socialismo - lo ha spesso ripetuto la dottrina sociale della Chiesa - risiedeva nella concezione materialista dell'uomo e della società. Lo stesso «errore distruttivo» accomuna anche il capitalismo (cfr BENEDETTO XVI, Discorso alla Sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano e dei Caraibi, 2007, n. 3): «Tanto il capitalismo quanto il marxismo promisero di trovare la strada per la creazione di strutture giuste ed affermarono che queste, una volta stabilite, avrebbero funzionato da sole; affermarono che non solo non avrebbero avuto bisogno di una precedente moralità individuale, ma che esse avrebbero promosso la moralità comune. E questa promessa ideologica si è dimostrata falsa» (ivi, n. 4). Nel dare «assoluta "priorità del capitale" rispetto al lavoro», cioè al denaro rispetto alle persone, il capitalismo speculativo trasforma le strutture dell'economia e della finanza da strumento a servizio della promozione della dignità umana attraverso il soddisfacimento dei bisogni - che ne è l'autentica natura - in meccanismo di sfruttamento di molti a vantaggio dell'avidità di pochi, come dimostra l'indiscriminata crescita della disuguaglianza negli ultimi decenni. In questo senso rappresenta la perversione di quell'economia sociale di cui parlava papa Wojtyla (cfr ad es. GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus [1991], n. 52). Proprio l'economia sociale di mercato è la direzione in cui far evolvere il sistema economico perché possa ritrovare il suo senso. È un compito che legittimamente può apparirci improbo e possiamo avvertire la tentazione di pensare che gli stimoli della dottrina sociale della Chiesa si limitino alla denuncia o siano astratti. Lo sforzo che ci attende per uscire davvero dalla crisi è soprattutto quello della creatività nel trovare un modo nuovo di incarnare quei principi, che «sono patrimonio di tutti e base di tutta la vita sociale: il bene comune universale, la destinazione universale dei beni, la priorità del lavoro sul capitale» (PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Nota della Santa Sede su finanza e sviluppo, cit., n. 3c). Il capitalismo speculativo ha già conosciuto una terribile crisi, quella del 1929, che non a caso viene spesso richiamata per parlare di quella attuale. In quelle circostanze ci vollero tempo e fatica per immaginare un nuovo assetto: quasi 4 anni separano il crollo della Borsa di New York dal lancio del New Deal da parte del presidente Franklin D. Roosevelt nel 1933. Lascito di quella fatica sono un nuovo ruolo dello Stato in economia e una serie di programmi di sicurezza sociale, la cui evoluzione condusse a quello che conosciamo come welfare state: entrambi, probabilmente, erano inimmaginabili nei primi mesi della crisi. La via di uscita arrivò proprio dallo sforzo di promuovere una maggiore giustizia e sicurezza sociale per tutti, in particolare i più poveri, anche a costo di limitare i margini di manovra del capitale: arrivò cioè dal tentativo di mettere le persone prima del denaro. Quelle ricette hanno guidato la politica economica per decenni, ma a partire dagli anni '70 hanno mostrato la corda. Oggi sono certamente inapplicabili, ma lo spirito che le animava può ancora essere fonte di ispirazione.

3. La crisi come opportunità: i primi passi di Obama

Il neopresidente degli USA, Barack H. Obama, ha fatto del cambiamento lo slogan portante della sua campagna elettorale e ora egli deve affrontare la sfida di metterlo in pratica. I primi passi della nuova Amministrazione non sono certo privi di ambiguità e solo il tempo consentirà di darne una valutazione adeguata. Tuttavia, in campo economico appaiono dei segnali che, per quanto possiamo comprendere ora, contengono elementi di discontinuità, nella linea dell'elaborazione di una nuova cultura, secondo quanto sopra indicato. Senza entrare nei dettagli del piano di rilancio dell'economia americana e dei pilastri su cui esso si fonda (ambiente, sanità, istruzione e infrastrutture), concentreremo la nostra attenzione su tre provvedimenti che, in quanto presi all'inizio del mandato, hanno certamente un valore simbolico. Si tratterà poi di vedere se i principi che li animano, sviluppati con coerenza, diventeranno effettivamente i capisaldi di una nuova politica.

a) Parità di genere e retribuzioni dei manager

La legge con la quale Obama ha inaugurato la propria presidenza porta il nome di una donna: Lilly Ledbetter, una lavoratrice della Goodyear che scoprì di ricevere una retribuzione inferiore solo perché donna. Grazie anche all'esperienza del Presidente americano come avvocato, l'intervento legislativo (Lilly Ledbetter Fair Pay Act del 29 gennaio 2009) combatte la discriminazione retributiva, a parità di mansioni, tra donne e uomini. Si tratta di un passo avanti estremamente significativo, in specifico nella direzione della parità di genere nel mondo del lavoro, ma anche per l'economia più in generale. Con le parole dello stesso Presidente: «L'intera economia può funzionare bene solo quando si garantisce che funzioni bene per tutti».
Un ulteriore elemento di novità è costituito dalla proposta presentata dal ministro del Tesoro, Tim Geithner, di porre un tetto pari a 500mila dollari annui alle retribuzioni dei top manager delle banche e delle imprese in crisi che beneficiano di aiuti pubblici, cioè delle centinaia di miliardi di dollari dei contribuenti spesi per i salvataggi negli ultimi mesi. Di fronte ai compensi milionari percepiti dai grandi manager, anche nel nostro Paese, si tratta di una proposta draconiana! Entrambi questi provvedimenti fissano dei paletti alla «libera» contrattazione di mercato, nel primo caso sulla base della pari dignità, cioè dell'uguaglianza dei diritti, nel secondo partendo da uno spontaneo sentimento di giustizia. Entrambi paiono affermare quella che per il liberismo sfrenato è un'autentica eresia: si può - o forse si deve - regolare il mercato sulla base di valori non economici. L'effetto di entrambi è una riduzione di quella disuguaglianza su cui Benedetto XVI richiama la nostra attenzione. Almeno dal punto di vista distributivo e all'interno di un ambito nazionale, vanno nella linea di una maggiore giustizia.

b) Green New Deal

Il piano di rilancio dell'economia americana comprende un organico programma dedicato all'energia e alla lotta ai cambiamenti climatici: 54 miliardi di dollari per gli investimenti in energia pulita e risparmio energetico, e 20,6 per gli incentivi alle energie rinnovabili. Contempla inoltre: la creazione di 5 milioni di posti di lavoro nei prossimi dieci anni, con un investimento di 150 miliardi di dollari, in grado di attirare investimenti privati per un futuro a energia pulita; la costruzione di una rete elettrica di quasi 5mila km alimentata dalle nuove fonti energetiche; un risparmio di due miliardi di dollari l'anno rendendo il 75% degli edifici federali più efficienti dal punto di vista energetico; l'eliminazione delle importazioni di petrolio dal Medio Oriente e dal Venezuela entro 10 anni; standard più severi per i consumi delle autovetture, con l'autorizzazione concessa a 14 Stati di emanare misure più stringenti in materia di emissioni di gas inquinanti e di efficienza delle automobili. Con tali provvedimenti il presidente Obama sembra invertire quello che era il common sense del mondo industriale: l'ecologia è un lusso che non possiamo permetterci in tempi di crisi (come pare essere la posizione del nostro Governo, cfr TINTORI C., «Energia e clima: il compromesso europeo», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2009] 123-132). Tale concezione è il risultato del capitalismo speculativo, che si esprime in un atteggiamento predatorio (anche) nei confronti della natura e delle sue risorse. Ora Obama prospetta la possibilità di una economia che concepisce l'ambiente come opportunità di crescita e non come vincolo, che cambia la struttura della produzione e dei consumi in direzione della sostenibilità. È troppo presto per sapere se la scommessa sarà vinta, ma almeno bisogna dargli atto di averci provato.

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Nel confronto con gli Stati Uniti, l'Europa si è spesso vantata di possedere un modello sociale più ricco, che assicura standard di protezione sociale più elevati, ma oggi sembra muoversi con fatica e senza una visione precisa: i provvedimenti di Obama le lanciano una sfida a trovare, proprio in questo campo, nuovo slancio e nuova creatività. Una sfida ancora più grande attende l'insieme dei Paesi industrializzati: quella di non relegare la solidarietà internazionale al ruolo di lusso filantropico troppo oneroso in tempi di crisi. In tal senso, e proprio in un momento come quello che stiamo attraversando, questo numero della Rivista dedica ampio spazio al tema della cooperazione allo sviluppo. L'attenzione ai poveri è la cartina di tornasole della serietà dell'impegno nella costruzione di una cultura economica più autenticamente umana.


Bartolomeo Sorge
Direttore di «Aggiornamenti Sociali»